8 maggio 2013

Caronte

 A Eva.

I gabbiani planano con leggiadria e noncuranza intorno al traghetto in partenza. La nebbia che avvolge le bianche scogliere di Dover ovatta il paesaggio. Il freddo umido della prima mattina convince gli altri passeggeri a sostare in luoghi più riparati. Io, invece, sono aggrappato alla ringhiera in coda alla nave (mi scuseranno i marinai per il lacunoso gergo tecnico). L'adrenalina mi scuote il corpo a causa della corsa a perdifiato per non perdere il traghetto. Il treno era in ritardo e l'autobus che mi ha portato dalla stazione al porto sembrava perdere tempo intenzionalmente ad ogni incrocio e ad ogni rotonda per non farmi arrivare in tempo. Non solo adrenalina, ma anche dolore fisico, sguardo annebbiato e conati di vomito. Io e la corsa non ci frequentiamo nè spesso nè volentieri.
Solo quando riesco a riprendere il controllo del ritmo respiratorio mi rendo conto che non sono da solo ad essere preso a schiaffi dal vento sul ponte esterno. C'è una ragazza. É vestita di nero, fuma una sigaretta ed ha lo sguardo fisso in direzione opposta a quella dove sono io. Verso un punto imprecisato in mezzo al mare. Mi metto a sedere ad uno dei tavolini di legno del ponte. Per riprendermi oppure esalare l'ultimo respiro mi accascio con la testa sul tavolo.
Quando rialzo lo sguardo, dopo qualche minuto, la ragazza è seduta di fronte a me. Il cuore salta un battito per lo spavento. É stata più silenziosa di un ninja. Mi sorride e mi chiede scusa. Dice che si è avvicinata per controllare che stessi bene. Mi chiede cosa mi ha ridotto in quello stato e allora io racconto tutta la storia. Il treno, l'autobus, la corsa, il polmone d'acciaio in cui dovrebbero mettermi eccetera. Ha i capelli neri raccolti in una coda e uno sguardo così intenso come non ne avevo mai visti. I suoi gesti sono netti e le parole determinate.
Nell'ora che il traghetto impiega per arrivare a Calais parliamo di tutto. Della vita, dell'universo e di tutto il resto. Raramente mi trovo a mio agio a parlare così a lungo con qualcuno. E mi turba il fatto che la conversazione possa essere interrotta per sempre dalla fine della traversata. Per la prima volta da quando mi ha spaventato a morte apparendo davanti a me, cala il silenzio tra di noi. Dopo un paio di minuti, mi chiede dove sono diretto. Io le spiego che ho alcune cose di lavoro da sistemare a Bruxelles e quindi prevedo una sosta di qualche giorno in Belgio. - Ti do un passaggio - mi dice. Sostiene che sarebbe comunque andata in quella direzione e un po' di compagnia sul suo furgoncino giallo non può che farle piacere. Io accetto entusiasticamente.
Il furgoncino è un vecchio Renault e mi stupisce un po' che abbia targa inglese e la guida a destra. Non pensavo che vivesse in Inghilterra. Glielo chiedo, ma la sua risposta è evasiva. Anzi è una non risposta. Cambia immediatamente discorso chidendomi se mi va di guidare al posto suo. Per me non è un problema e quindi, dopo aver aspettato che tutti i tir e i mezzi pesanti siano usciti dal traghetto, sbarchiamo in terra francese. Un po' impacciato, sono ai comandi di un furgoncino giallo con la guida dalla parte sbagliata.
Il viaggio prosegue liscio e immerso in chiacchere sui massimi sistemi fino al confine con il Belgio. Prima di attraversarlo mi suggerisce di fermarmi a fare benzina. Il carburante in Belgio è più caro, effettivamente. Per sdebitarmi in parte per il passaggio ottenuto, mi offro di pagare il carburante. Ed è proprio mentre sono alla cassa a digitare il codice della carta di credito che con la coda dell'occhio la vedo salire sul seggiolino del passeggero di un'utilitaria nera, che immediatamente parte a tutta velocità dalla stazione di servizio. In quel momento la mia mandibola deve aver toccato terra. Mi riprendo dallo stupore solo quando mi sento chiamare ripetute volte dalla cassiera. - Può riprendere la carta - mi dice. Esco fuori e mi guardo intorno come se tutto il mondo, o almeno tutta l'area di servizio, dovesse essere partecipe del mio shock. Sono deluso dal fatto che nessuno lo sia.
La prima cosa che faccio è controllare se ci siano ancora le chiavi nel cruscotto. Ci sono. La seconda cosa che faccio è chiedermi - E adesso? - ma non ho una risposta. La terza cosa che faccio è aprire il portellone di dietro e controllare cosa c'è dentro. C'è un uomo legato, imbavagliato e apparentemente narcotizzato. Aspetta. Cosa?
Ho un leggero mancamento e devo arreggermi alla portiera per non cadere per terra. Panico. Lo volto e gli tolgo il bavaglio dalla bocca. É Mick Jagger. Aspetta. Cosa?
Mi sembra di essere in un sogno. Ecco. Forse sto sognando. Il freddo è ancora umido come stamattina sul traghetto. La nebbia che avvolge l'area di servizio ovatta il paesaggio. Non siamo lontani dal mare e un gabbiano plana con leggiadria e noncuranza sul furgoncino. L'adrenalina mi scuote il corpo per la scoperta appena fatta. Non ho corso a perdifiato ma ho difficoltà a respirare. Solo quando riesco a riprendere il ritmo del respiro mi rendo conto delle sirene spiegate che si stanno avvicinando velocemente.

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